venerdì 3 settembre 2010

Popcorn: La Casa Dalle Finestre Che Ridono


Maledetto Dylan Dog.
Ok.
Direte voi "Che c'entra un fumetto col più famoso film horror di un regista italiano ai più noto per i suoi drammoni recenti?"
C'entra, c'entra.
Chi lo avesse, vada a leggersi il numero intitolato "L'incubo dipinto" e mi dica se non trova delle similitudini.
Del resto, il citazionismo è uno degli elementi cardine di questo (per me, grande) fumetto, e solo ora che sono più grandicello, riesco a cogliere omaggi nascosti (in alcuni casi, palesi) che ovviamente mi sfuggivano quando, all'età di 8 anni, mia nonna mi regalò "Il Bosco Degli Assassini", mitico numero 70 e primo Dylan Dog della mia vita.
Chiusa la parentesi fumettara, com'è il film?
Notevole. Molto molto interessante.
Ambientata in un paese della bassa padana, terra natìa del regista (quel Pupi Avati che molti ricordano per "Regalo di Natale" o drammi come il recente "Il papà di Giovanna"), la pellicola ruota intorno alla figura maledetta di Buono Legnani, pittore specializzato in agonie (coadiuvato da 2 malefiche sorelle), poi morto suicida.
Trent'anni dopo, nel piccolo sobborgo, giunge un giovane restauratore con l'incarico di riportare alla luce un affresco sul martirio di San Sebastiano, dipinto proprio dal Legnani, scoprendo però, che sotto la polvere, c'è molto altro.
Onore al merito, Avati è abilissimo nel permeare tutto il film di un'inquietudine sottile e soffusa e che trova le sue vette nei terribili titoli di testa e nello spettacolare finale.
Qualche giorno fa, leggevo su Internet di un'iniziale progetto che prevedeva le riprese negli Stati Uniti, cosa che secondo me avrebbe notevolmente danneggiato il film.
Penso, infatti, che il clima rurale e tranquillo che si respira normalmente nei piccoli paesi, e che Avati, qui, riproduce alla perfezione, sia un perfetto "velo di Maya" (consentitemi questa citazione filosofica, please) per l'orrore che si nasconde sotto l'immagine di un paesaggio sereno e quasi ingenuo nella sua semplicità (il personaggio di Lidio è indicativo, a riguardo).
E il protagonista, interpretato da Lino Capolicchio (un po' statico, ma tutto sommato nella parte), viaggia in parallelo nel suo lavoro di ripristino: l'affresco è, a tutti gli effetti, una metafora (neanche poi tanto implicita, vista l'importanza ai fini della trama) della realtà in cui è precipitato.
Alla creazione della sopracitata inquietudine continua, indubbiamente, contribuisce il gruppo attoriale guidato da un Gianni Cavina perfetto nel ruolo del mezzo svitato, con un Bob Tonelli versione-Michael J. Anderson in Carnivàle, e una bellissima (anche se un po' imbalsamata) Francesca Marciano.
Sul finale shocking non dico nulla, ma, certamente, film come questo alimentano la mia perplessità sullo stato attuale del cinema italiano che non riesce andare oltre i soliti drammi strappalacrime, le boiate in salsa teenager di Moccia e gli insulsi cinepanettoni con Boldi e De Sica (che ora si sono pure sdoppiati).
Il guaio è che al botteghino funzionano.

Voto 8


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