martedì 21 settembre 2010

Popcorn: Session 9


Vedere un film, vivere un film.
Vedere un luogo, vivere un luogo.
Dietro questo scadente aforisma appena partorito, potrebbe essere racchiusa l'intera esperienza di Session 9.
Secondo me, l'horror vive e poggia le sue fondamenta sulla paura derivante dalla capacità di immedesimazione. Perchè un film di questo genere possa considerarsi riuscito, è necessario che si ottenga quel grado di coinvolgimento che fa sì che lo spettatore stia, per quell'ora e mezzo circa, in uno stato di tensione.
Pensate a Non Aprite Quella Porta.
Quanto sangue si vede?
Beh, a parte il finale, veramente poco. Lì la suspense gioca tutto sulla musica di sottofondo (quella sì, veramente disturbante) e sulle apparizioni improvvise di Leatherface.
E in Psycho? Quanto sangue c'è in Psycho?
E davvero avete avuto paura guardando uno dei 15mila Saw?
Gli splatter in fondo quasi mai hanno l'intento di spaventare, o forse sono io a trovare troppo facilmente l'aspetto goliardico in litri e litri di sangue che grondano dallo schermo: si arriva ad un'estremizzazione tale da non risultare più aderente con la realtà.
E se non è aderente con la realtà, è difficile che mi possa immedesimare.
Detto questo, Brad Anderson con un budget ridottissimo, senza effetti speciali e con sole riprese in digitale (altro elemento che, secondo me, è determinante per il discorso di cui sopra, per l'effetto di vivida tangibilità che produce) crea un piccolo capolavoro di tensione e inquietudine.
Cinque operai (tra cui il David Caruso-Horatio Caine di CSI Miami) vincono un appalto per occuparsi della rimozione di vecchi pannelli d'amianto da un manicomio abbandonato da 20 anni.
In una settimana di lavoro, emergono aspirazioni frustrate, fobie, rancori, e segreti via via che ci si addentra nell'edificio.
L'esplorazione della struttura diventa esplorazione dei propri limiti, rivelando ciò che è nascosto da quel guardiano della memoria che è la coscienza.
Ed è sempre così che si trova ciò che non si cerca. E non necessariamente questo ha delle conseguenze positive.
Sullo sfondo (e solo superficialmente fuori contesto), vengono alla luce nove nastri contenenti la registrazione di agghiaccianti sedute psichiatriche con una donna affetta da disturbo di personalità multipla.
Anderson proietta sullo schermo e fuori da esso (altro che 3D) i moti dell'animo dei 5 operai rendendoci pienamente partecipi degli eventi: il nictofobo che scappa dal buio, l'esplorazione notturna dell'ex ospedale e l'inquietante finale sono acme di una tensione che ricordo di aver sperimentato l'ultima volta in un segmento di Zodiac di David Fincher (quando Jake Gyllenhaal scende in cantina, per la precisione).
L'eleganza delle luci (del resto, dopo questo film, Anderson girerà "L'Uomo Senza Sonno", altro gioiello), un commento musicale minimale coadiuvato da sinistri rumori e suoni indefiniti, e una prova attoriale notevole (su tutti Peter Mullan) contribuiscono alla creazione di un riuscito mix di fascinazione, paura e inquietudine.
Manca l'elemento grottesco, che probabilmente avrebbe fatto gridare a un emulo di David Lynch (di cui comunque si sente qualche eco); rimane, ad ogni modo, un'opera di grande spessore per la capacità di conciliare conscio e subconscio, paura e volontà di azione e che punta a mettere in risalto la logica oscura, ma pur sempre lineare, della follia.
Follia che, volenti o nolenti, è nascosta dentro ognuno di noi, lì in un piccolo recesso della nostra mente.
Consigliatissimo.

Voto 8,5

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