mercoledì 14 luglio 2010

Popcorn: Invictus


Quando si fanno film biografici, uno dei rischi più grandi è cadere nell'agiografia, trasformando il ritratto di un uomo (con tutti i suoi pregi, ma anche con tutti i suoi difetti) in quanto di più vicino ad un santo, col risultato di rendere il tutto meno veritiero (e verosimile) e un po' stantìo.
E devo ammettere che, stante l'enorme caratura di Nelson Mandela, la sensazione di avergli intravisto un'aureola in testa, qualche volta, l'ho avuta. Ma magari è solo colpa mia e del solito dubbioso atteggiamento che nutro nei confronti della bontà pura; e qui entreremmo in un ambito totalmente diverso, che non c'entra nulla.
Detto questo, i difetti di Invictus finiscono qua.
Clint Eastwood, a oggi, è uno dei pochi grandi Maestri del cinema. Uno di quelli che sanno far parlare la telecamera, trasformandola in una mosca che gira per il set, riprendendo tutto ciò che vede in una maniera così naturale e pura, da lasciarti senza parole.
Memorabili le scene che ritraggono le partite degli Springboks durante la Coppa del Mondo; non ricordo di aver mai visto uno sport rappresentato così bene al cinema. Gli stacchi sul pubblico, che a poco a poco si mescola ed esulta insieme, non fanno che aumentare l'impatto emotivo e il sentimento di partecipazione a quell'impresa storica: lì veramente il paese si unisce, diventando tutt'uno con i 15 giocatori verde-oro, a prescindere dal colore della pelle.
Splendido, poi, il momento in cui gli Springboks improvvisano una lezione per i bambini delle bidonville: così autentico, vero, perfetto. E con delle musiche magnifiche a sottolinearlo.
Morgan Freeman, dal canto suo, tratteggia un Mandela impressionantemente identico all'originale che (momenti di santità a parte), pur mantenendo sempre la parvenza di un uomo normale, è di fatto l'unico sudafricano in grado di realizzare qualcosa di straordinario, con la massima semplicità.
Emblematica è la scena del colloquio con i rappresentanti del suo partito: poche parole ma che arrivano tutte al cuore di chi lo ascolta.
Il François Pienaar di Matt Damon è convincente, solido e credibile, specie nella stretta di mano finale, durante la premiazione (scena da brividi) e nella già citata lezione ai bambini africani.
Significativo e tenero il momento in cui regala i biglietti per l'ultima partita ai familiari e alla domestica di colore.
Insomma, in parole povere, meta trasformata per Eastwood.
Ora vi beccate la meravigliosa poesia di William Ernest Henley, citata da Mandela, e che dà il titolo al film.

Dal fondo della notte che sovrasta

Come l’Inferno, polo a polo, nera,
Ringrazio qualunque dio esista
per l’anima mia così fiera.

Nel crudo artiglio degli eventi
Non ho gridato mai nè sussultato.
Sotto i colpi di fortuiti accadimenti
Il capo è ferito e non piegato.

Oltre ‘sto sito di pianto e grida
Incombe delle tenebre l’Orrore.
Eppure negli anni ogni sfida
Mi trova, e troverà, senza timore.

Per quanto angusto sia il cammino,
Per quante pene il cartiglio abbia severe,
Sono maestro del mio destino:

E della mia anima il nocchiere.

Voto 8

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