mercoledì 29 giugno 2011
Dischi Del Mese: Giugno '11
Per dirimere la questione Death Cab-Arctic Monkeys (due gruppi che amo), la copertina del mese va all'insolita presenza di un attore in questa rubrica. Attore che tra l'altro adoro, essendo un fan della prima ora di House, e che col suo primo disco dà prova della poliedricità che nel corso della serie tv era possibile soltanto intuire.
Death Cab For Cutie - Codes And Keys: a Ben Gibbard voglio bene, partiamoci così. Non ha una gran voce ma un grande orecchio e lo ritengo uno dei più bravi nel fare musica pop senza sacrificare nulla in termini di spessore (e Transatlanticism è uno dei miei dischi preferiti in assoluto). Poi è pure sposato con Zooey Deschanel: insomma, è uno che ha capito tutto della vita. Fatta questa doverosa premessa, Codes And Keys è un altro buon disco, non ottimo per un paio di pezzi insignificanti (tipo Home Is A Fire o Underneath The Sycamore), ma con le classiche belle canzoni dei Death Cab For Cutie: dall'allegra marcia della title track passando per lo splendido singolo You're A Tourist (che trovate più sotto), dalla ritmata Doors Unlocked And Open alla melanconica Unobstructed Views fino alla tenerezza conclusiva di Stay Young, Go Dancing. Non è il loro capolavoro (perchè probabilmente hanno già dato col disco sopracitato) ma soddisfa pienamente i palati dell'ascoltatore aficionado proponendo una ricetta meno malinconica, più solare, ma efficace come sempre. Voto 7
Ben Harper - Give 'Till It's Gone: non sbaglia un colpo. Dopo essersi strafogato di rock'n'roll coi Relentless7 (vi consiglio il cd/dvd live al Montreal Jazz Festival, specie ora che è a prezzo stracciato), e aver cazzeggiato coi Fistful Mercy, il vecchio Ben tira fuori un altro ottimo disco fatto di soul (il primo splendido singolo), folk e perfino psichedelia (con la collaborazione di Ringo Starr alla batteria) , senza per questo dimenticare la nuova/vecchia passione per la graffiante chitarra elettrica che fa capolino in più episodi (da Clearly Severely a Rock'n'roll Is Free). Già dal titolo dell'album sembra evidente la voglia di risorgere, di reagire con solarità (Harper è da poco uscito dalla separazione con l'attrice Laura Dern), di non arrendersi e di amare fino all'ultimo momento disponibile. Rimane uno dei pochi a saper conciliare la quantità delle frequenti uscite con una qualità sempre eccellente. Voto 7-
Hugh Laurie - Let Them Talk: che il talento di Hugh Laurie fosse parecchio lo si era capito da tempo. Un antipasto del lato musicale di questo talento lo avevamo avuto con la Band From TV: una specie di supergruppo fatto da attori, provenienti da vari show televisivi, sotto la guida di Greg Grunberg di Heroes e dello stesso Laurie (senza dimenticare Jesse Spencer, insospettabile violinista di livello). Tante cover e qualche live divertente (su Youtube si trova tutto) per un esperimento carino e tutto sommato riuscito. Con questo Let Them Talk, invece, l'attore inglese si prende un po' più sul serio, in un full length fatto di grandi classici (St. James Infirmary su tutti) e rivisitazioni di tesori nascosti (ma niente di imperdibile); forse un po' troppe tracce ne appesantiscono l'ascolto, ma, sfrondati alcuni dimenticabili episodi (Baby Please Make A Change e Winin'Boy Blues, per citarne due), rimane un disco con una sua identità e un preciso valore, non il semplice capriccio di una star dello showbiz. Voto 6,5
Arctic Monkeys - Suck It And See: il precedente Humbug sembrava figlio illegittimo dei Queens Of The Stone Age, per quanto suonava stoner; Josh Homme in cabina di produzione aveva fatto sentire il suo peso confezionando un lavoro tanto affascinante quanto criptico e per certi versi astruso. Così, Turner e compagni tornano al produttore degli esordi cercando di coniugare il suono ruvido ma solare dei primi 2 lavori all'acida durezza impressa dal nuovo guru stoneriano. Il risultato è un disco molto più a fuoco del precedente, dove le sperimentazioni strutturali sono meno azzardate e l'attenzione per la melodia risulta più calibrata. Quindi, se da una parte Don't Sit Down 'Cause I've Moved Your Chair sa di Desert Sessions fin dal primo riff, dall'altra The Hellcat Spangled Shalalala e Reckless Serenade potrebbero benissimo trovare posto nella tracklist di Whatever People Say.. Nel mezzo, un paio di riusciti rallentamenti (la title track), un'aggressività quasi punk in Library Pictures e la solita, ma mai banale, chitarra tagliente come filo conduttore. Magari il prossimo sarà il disco perfetto. Voto 7
Danger Mouse & Daniele Luppi - Rome: registrato in quel Forum di Roma che negli anni '70 ha visto alternarsi gente come Morricone, Bacalov, Trovajoli, Piccioni, Ortolani e tanti altri, Rome è un elegantissimo concept omaggio ai maestri italiani della colonna sonora. Luppi e Danger Mouse mostrano un rispetto quasi religioso nei confronti del genere con cui si cimentano, reclutando musicisti che ai tempi facevano parte delle orchestre dei compositori sopracitati, ed avvalendosi persino del suono caldo e corposo degli strumenti dell'epoca. E se è vero che le guest star vocali (Norah Jones e Jack White) sono perfettamente calate nei panni e nelle atmosfere del disco, i brani strumentali non sono da meno (Roman Blue su tutti), aumentando il rimpianto per la fretta con cui passano i 35 minuti di ascolto complessivo dell'album. Voto 7+
mercoledì 22 giugno 2011
The Killing - Stagione 1
Nel magico mondo del tubo catodico, c'è posto solo per un cadavere di ragazza figa trovata morta in circostanze misteriose; perciò, cara Rosie Larsen, mi dispiace, ma ti tocca rimanere in quel bagagliaio pieno d'acqua per molto molto tempo.
Lei vince sempre, non c'è partita.
C'hai provato, hai cercato di renderti interessante, ma se non fosse per questo poster promozionale non mi ricorderei neanche che faccia hai.
Senza rancore, eh.
Crepa in silenzio.
Per amore del vero, va anche detto che The Killing con Twin Peaks, a dispetto di qualche omaggio più o meno sfacciato, non c'entra un cazzo: sì, anche qui la suddetta ragazza incofanata ha tutti i crismi dell'angioletto di casa, salvo poi passarsi costose serate in un casinò al confine e, sì, anche qui c'è un invisibile fil rouge che lega i segreti e gli scheletri nell'armadio di persone apparentemente scollegate tra loro, ma, vi giuro, non c'è altro.
Anche perchè, se paragoniamo quell'idolo di Dale Cooper alla coppia di detective improvvisati di The Killing, si rischia di diventare cattivi.
Oltre ad essere i due investigatori peggio vestiti mai apparsi in tv, Linden e Holder sono così incapaci e privi di intuito da far sembrare Manuela Arcuri un carabiniere credibile. Sì, perchè, ogni progresso dell'indagine, in questi 13 episodi/giorni, è frutto di una proverbiale botta di culo messa lì per far crollare i sospetti e le congetture sul potenziale assassino di puntata e indirizzarli, nella successiva, verso un nuovo insospettabile personaggio (il quale, ovviamente, si rivelerà a sua volta un buco nell'acqua).
Il tutto nasce dall'esigenza, o scelta stilistica, vedete voi, di seguire con attenzione maggiore l'aspetto emotivo della vicenda, focalizzando la macchina da presa sulle reazioni dei familiari della vittima.
Per cui, ok, sacrifichiamo le indagini rendendole il più ingarbugliate, inverosimili e sconclusionate possibile, così ci concentriamo sul drama e facciamo qualcosa di lacrimevolmente apprezzato.
Ebbene, pur disponendo di una materia prima ottima (almeno sulla carta, viste le lodi unanimi riscosse dall'originale danese Forbrydelsen), e di un'aura che furbescamente rimanda a un telefilm che ha fatto epoca, The Killing si rivela per quello che è.
Un insignificante pasticcio.
Avete capito bene, anche la parte lacrimevole e compassionevole ha i suoi grossi problemi; la famiglia Larsen è un frullato di stereotipi e clichè come se ne vedono in qualsiasi telefilm (persino in Italia), e l'indugiare in maniera lenta e pedissequa sulle reazioni alla perdita risulta inevitabilmente pesante e artificioso.
Rosie, di fatto, potrebbe aver trascorso tutta la vita in quel bagagliaio, agli occhi dello spettatore, per quanto poco si sa di lei; da qui, l'errore di fondo.
Mentre in Twin Peaks gran parte del merito andava alla centralità della vittima nelle indagini (rendendo Laura viva, a dispetto di quanto accaduto), The Killing sembra privo di un autentico fulcro, ondeggiando confusamente tra un giallo classico (e sbullonato, come detto sopra), un drama superficiale che cancella dalla scena l'elemento portante (indebolendo l'interesse che si può provare per le dinamiche familiari) e una poco appassionante spy story politica (discutibilmente tenuta slegata dall'omicidio per troppo tempo).
Come se non bastasse, gli ultimi 2 minuti del season finale regalano un plot twist forzato e assolutamente folle, che certifica come questi 13 episodi siano stati soltanto un megabluff.
Voto 5-
Ah, la serie è stata rinnovata per una seconda stagione (che probabilmente seguirò a tempo perso), dove l'autrice principale (tale Veena Sud) ha già annunciato la risoluzione del caso Larsen nelle prime puntate e il contemporaneo affiancarsi di un nuovo omicidio...
Hype?
Zero.
venerdì 17 giugno 2011
Tutti In Piedi!
Alle 21 diretta streaming dell'evento di Bologna con Michele Santoro, Vauro, Marco Travaglio, Serena Dandini, Subsonica and many others!
lunedì 13 giugno 2011
Popcorn: X-Men L'Inizio
Dopo 3 inizi fallimentari, salterò i preamboli: è forse il miglior film sugli X-Men, nonostante Hugh Jackman compaia solo 10 secondi in scena (ed è uno dei momenti più divertenti della pellicola).
Accantonati e rimossi dalla mente gli scempi di X-3 e del terribile Wolverine:Origins, Bryan Singer torna a supervisionare la produzione cercando di rimettere a fuoco una saga che con i 2 primi capitoli aveva più che convinto, pur senza incantare.
Merito al regista de I Soliti Sospetti per aver scelto gli ingredienti giusti:
-un ottimo Matthew Vaughn, che dopo Kick-Ass confeziona un film pieno di ritmo, senza far pesare i 132 minuti complessivi
-un cast ben assortito con McAvoy e Fassbender perfetti, sia da soli che in coppia, e un Kevin Bacon favolosamente a suo agio nel ruolo di villain.
-uno script vivace e ben calibrato tra introspezione psicologica (viene riesumato il vecchio caro tema dell'integrazione e dell'accettazione del diverso), atmosfere camp e scene action (che, a dispetto dei numerosi detrattori, mi sono sembrate ben realizzate)
Chi temeva che l'assenza di Wolverine avesse avuto il suo peso, beh, si goda la caccia di Magneto agli ex nazisti fuggiti in Argentina e si ricreda a tempo di record.
La sensazione è che l'eventuale trilogia che parte con questo film abbia al suo centro proprio il futuro leader della Confraternita dei Mutanti, esattamente come i primi 3 capitoli avevano in Wolverine il fulcro della vicenda.
E a guardare la performance di un Michael Fassbender ormai in rampa di lancio, c'è da ben sperare.
Ma dicevo, non si rimane incantati.
Dal mio punto di vista, il problema è che i difetti che ci sono (o almeno, quelli che ho trovato io) sono tutti concentrati su un unico personaggio, e per questo amplificati all'occhio dello spettatore.
Da avido lettore del fumetto, avevo aspettative (forse) esagerate sullo sviluppo di Emma Frost; e, come da regola, un hype pazzesco esiste solo per essere puntualmente smentito.
La Regina Bianca del Club Infernale è probabilmente il personaggio tratteggiato più superficialmente del lotto (se la batte con Angel); si intuisce che è una stronza manipolatrice, ma non è abbastanza, e il suo ruolo nella storia principale risulta piuttosto marginale, se paragonata alla controparte a nuvolette.
Aggiungete una resa in CGI della trasformazione in diamante un po' approssimativa ed una recitazione di una sempre figa, ma tendente alla monoespressione, January Jones (la verità è che soffro dopo aver letto su Wikipedia che l'alternativa era Alice Eve), e avrete un quadro completo dei difetti di questo film.
Se poi in fatto di donne la pensate diversamente da me, X-Men: L'Inizio si può considerare tranquillamente (e insieme al secondo episodio) il miglior capitolo della saga dei figli dell'atomo.
Voto 7,5
venerdì 10 giugno 2011
Di Tutto, Mai Più
Sono appena usciti i dati di ascolto di ieri sera ed Annozero chiude superando gli 8 milioni di telespettatori e facendo il 32% di share.
La RAI rinuncia ad una fonte spaventosa di introiti e guadagni pubblicitari, condannando il secondo canale ad un sostanziale oscuramento (perchè, a parte quella porcata di Isola dei Famosi, non so quali altre trasmissioni ci siano) per accontentare finalmente il Signore e Padrone Berlusconi.
Un uomo che, pur disponendo di 3 emittenti televisive (e controllandone di fatto altre 3), addita come principale responsabile delle sue recenti sconfitte politiche un conduttore televisivo e la sua trasmissione a cadenza settimanale.
Un uomo che ha l'impudenza di parlare di "martellamento mediatico", dopo aver rilasciato a reti unificate interviste-comizi a giornalisti compiacenti, in pieno stile sovietico (lui che i comunisti li odia).
Un uomo che già ai tempi del famigerato 'editto bulgaro' aveva condannato l'"uso privatistico del servizio pubblico", salvo poi disporre egli stesso privatamente di quella che è un'azienda dello Stato, rimuovendo i personaggi a lui sgraditi.
Un uomo che..ok, potrei continuare ma mi scoccia, e lascio trarre ai lettori le conclusioni del caso; sparare su Berlusconi, ormai, è come sparare sulla Croce Rossa e la foto qui sopra viene dall'Economist, non dalla redazione di Annozero, Ballarò, Report o Parla Con Me.
Che poi, quello che ieri mi ha fatto gonfiare le vene del collo (oltre ai 4 caffè e alle tonnellate di sale con cui ho condito i miei pasti) è ben altro.
Per spiegarmi meglio, occorre prima soffermarsi un attimo sulla parola 'claque'.
Il termine claque è un francesismo di uso corrente (dal verbo onomatopeico francese claquer, battere schioccando, come per esempio il battimani; analogo all'inglese to clap), che in italiano indica soprattutto un gruppo organizzato di spettatori che applaude o dissente non spontaneamente, ma dietro compenso economico o di altra natura. (Wikipedia)
Che un Ministro della Repubblica (so che fa specie accostare questi termini a un individuo come Brunetta, ma tant'è), si permetta di insultare l'intelligenza e il pensiero degli spettatori, accusando le opinioni contrarie di essere pagate per farlo, è intollerabile, arrogante e paradossale.
Se rimaniamo al significato etimologico del termine, infatti, appare palese che se c'è da parlare di claque, basta guardare al teatro Caprarica e alla manifestazione dei LIBERI SERVI per avere una degna rappresentazione del concetto.
I servi, appunto, sono tali perchè appartengono alla proprietà del Padrone, che ne dispone secondo il proprio piacimento e vantaggio.
Su Castelli, ex Ministro Della Giustizia, che sottintende l'invito a non pagare il canone RAI (consigliando quindi l'EVASIONE FISCALE, una delle principali cause del disastro dell'economia italiana), non penso ci sia molto da dire.
Del resto, Santoro gli ha risposto nel migliore dei modi, così:
E non fatevi fregare: il 12 e 13 andate a votare. E' un dovere, prima ancora che un diritto, ed è l'unico modo per certificare e mettere nero su bianco come gli italiani la pensino veramente sul proprio governo. Sì, è un referendum politico, embè? se Berlusconi dice apertamente di non andare a votare, un motivo dev'esserci, no?
mercoledì 8 giugno 2011
Californication - Stagione 4
Come si fa ad essere obiettivi con una serie tv con David Duchovny protagonista?
E soprattutto, come si può essere obiettivi quando contemporaneamente sullo schermo appaiono il Duchovny di cui sopra e Carla Gugino?
No dico, Carla Gugino: una donna da amare a priori e venerare in maniera incondizionata, lei, MILF del millennio, e cento volte più figa di quelle passere di legno di Megan Fox e di Kristen Stewart, che sia in topless e senza mani o di giallo latex-finto seta vestita.
Ebbene, viste le premesse, converrete con me che l'obiettività è difficile da perseguire, ma non abbiate timori: il giudizio sulla quarta stagione di Californication dipende essenzialmente da un solo fattore: le aspettative.
Più basse sono, e meglio si godono i 30 minuti a episodio, con la solita dose di doppi sensi, tette più o meno finte, soffocamenti autoerotici, depilazioni genitali maschili non propriamente riuscite, e risate varie sulla falsariga delle precedenti annate.
Viceversa, se fate parte di quella schiera di sognatori che ancora si illude che Hank possa cambiare, mettere la testa a posto, finirla di fare cazzate su cazzate e diventare una volta e per tutte un buon padre di famiglia, beh, mi dispiace per voi, ma Californication non si muove di un millimetro.
Il nostro Bukowski dei poveri continua pateticamente a passare da una figa all'altra, a non imparare dai suoi errori (la storyline principale della stagione incentrata sul processo mi sembra una prova evidente di tale immobilità) e a mostrare grande creatività nel commetterne di altri.
Tanto c'è sempre un reset di fine stagione a risolvere tutto.
Insomma, è come vedere una puntata dei Simpson, dove gli ultimi 30 secondi annullano i grandi cambiamenti epocali che costituiscono il centro dell'episodio, ripristinando la quotidiana routine di Springfield.
Viceversa, se fate parte di quella schiera di sognatori che ancora si illude che Hank possa cambiare, mettere la testa a posto, finirla di fare cazzate su cazzate e diventare una volta e per tutte un buon padre di famiglia, beh, mi dispiace per voi, ma Californication non si muove di un millimetro.
Il nostro Bukowski dei poveri continua pateticamente a passare da una figa all'altra, a non imparare dai suoi errori (la storyline principale della stagione incentrata sul processo mi sembra una prova evidente di tale immobilità) e a mostrare grande creatività nel commetterne di altri.
Tanto c'è sempre un reset di fine stagione a risolvere tutto.
Insomma, è come vedere una puntata dei Simpson, dove gli ultimi 30 secondi annullano i grandi cambiamenti epocali che costituiscono il centro dell'episodio, ripristinando la quotidiana routine di Springfield.
Solo che questo dura 12 puntate.
E se è vero che nella prima stagione, Hank sembrava mosso da un qualche spirito di rivalsa teso a riconquistare Karen, dalla seconda in poi, l'impressione sempre più netta è che il nostro eroe sia una sorta di barca alla deriva, in balia di venti, eventi e delle fighe che gli cadono tra le braccia, senza una vera progettualità a livello di script.
Basti pensare ai due grossi snodi di questa quarta stagione: il processo e le riprese del film sulla vita di Hank.
Due trame potenzialmente interessanti, gestite male e sviluppate peggio, con personaggi che vanno e vengono (Mia, Sasha Bingham, la Gugino-avvocata, Eddie Nero) facendo periodiche comparsate, senza che al protagonista gliene importi una sega, per quanto è statico.
Intendiamoci, io amo Californication ed Hank Moody e quel folle pervertito di Charlie Runkle e Becca e persino la donna più instabile del globo terracqueo (Karen); però, cazzo, se dopo 4 stagioni comincio a nutrire il sospetto che il protagonista sia più un coglionaccio patetico che un figo artista dannato, è evidente che qualcosa non funziona.
Ed è un peccato, perchè, come detto sopra, visti i 12 episodi in 3-4 giorni, Californication ti strappa le fragorose risate che gli chiedi e riesce persino a chiosare con poesia, in un finale palesemente pensato come chiusura di serie, prima che la SHOWTIME rinnovasse per una quinta stagione.
Insomma, in attesa di tempi migliori, un discreto compitino da cui carpire qualche pillola di saggezza (tipo "texting is for faggots") e nuove fantasie erotiche.
Voto 6-
E se è vero che nella prima stagione, Hank sembrava mosso da un qualche spirito di rivalsa teso a riconquistare Karen, dalla seconda in poi, l'impressione sempre più netta è che il nostro eroe sia una sorta di barca alla deriva, in balia di venti, eventi e delle fighe che gli cadono tra le braccia, senza una vera progettualità a livello di script.
Basti pensare ai due grossi snodi di questa quarta stagione: il processo e le riprese del film sulla vita di Hank.
Due trame potenzialmente interessanti, gestite male e sviluppate peggio, con personaggi che vanno e vengono (Mia, Sasha Bingham, la Gugino-avvocata, Eddie Nero) facendo periodiche comparsate, senza che al protagonista gliene importi una sega, per quanto è statico.
Intendiamoci, io amo Californication ed Hank Moody e quel folle pervertito di Charlie Runkle e Becca e persino la donna più instabile del globo terracqueo (Karen); però, cazzo, se dopo 4 stagioni comincio a nutrire il sospetto che il protagonista sia più un coglionaccio patetico che un figo artista dannato, è evidente che qualcosa non funziona.
Ed è un peccato, perchè, come detto sopra, visti i 12 episodi in 3-4 giorni, Californication ti strappa le fragorose risate che gli chiedi e riesce persino a chiosare con poesia, in un finale palesemente pensato come chiusura di serie, prima che la SHOWTIME rinnovasse per una quinta stagione.
Insomma, in attesa di tempi migliori, un discreto compitino da cui carpire qualche pillola di saggezza (tipo "texting is for faggots") e nuove fantasie erotiche.
Voto 6-
sabato 4 giugno 2011
Popcorn: Somewhere
Ieri sera ero molto annoiato.
Parecchio annoiato.
Impossibilitato a giocare alla PS3 per la dipartita del mio televisore di fiducia, mi sono detto:"Toh, guardiamoci un film, và".
Dopo rimuginazioni varie su durata e genere, la scelta cade su Somewhere di Sofia Coppola, una donna da amare (platonicamente) a priori per aver girato Lost In Translation.
Dite che forse facevo meglio ad iniziare a leggere il libro di Pynchon che ho sul comodino da settimane?
Meh.
Prima scena: inquadratura fissa su una Ferrari Testanera che gira in tondo per almeno 4 minuti.
Seconda scena: 2 strafighe gemelle impegnate in un'esibizione privata di lap dance con in sottofondo My Hero dei Foo Fighters, sotto lo sguardo iperannoiato del protagonista.
Avete presente quando vi trovate tra 2 specchi e guardate dentro le varie realtà proiettate?
Ecco, la sensazione è stata simile.
Solo che io non sono Johnny Marco, attore hollywoodiano del momento (un convincente Stephen Dorff), non alloggio in uno spettacoloso hotel losangelino in Sunset Blvd, la sera non ho la possibilità di scegliere tra le gemelle lapdancers e i festini ad alto tasso di abbordaggio (infatti guardo 'sto film), non ho una Ferrari Testanera, elicotteri personali e via dicendo.
Così, la prima metà della pellicola scorre, molto lentamente, illustrandoci la giornata-tipo del protagonista fatta di photocalls con colleghe astiose (ma quanto è bona Michelle Monaghan?), conferenze stampa senza senso, estenuanti sessioni di trucco e trombate serali con una delle tante fiamme a disposizione.
Il discorso è che se il concept di Somewhere ruota intorno alla noiosa e solitaria vita del protagonista, sporadicamente ravvivata dalle visite della figlia (una Elle Fanning a cui è impossibile resistere), è chiaro che non puoi far altro che girare parecchie scene noiose, intervallate da lampi di vita e brillantezza (la scena del massaggiatore mi ha fatto schiattare dal ridere, lo ammetto).
Quindi, l'impressione è quella di vedere un Lost In Translation 2.0, con meno Bill Murray (però a me Dorff non è dispiaciuto affatto) e meno chiappe della Johanssonn; c'è di nuovo l'albergo come rifugio asettico e anemozionale, le fredde luci notturne a fare da sfondo intonato al mood malinconico e triste del protagonista, c'è un broadcasting straniero da dileggiare (stavolta tocca a noi italiani che, tra Simona Ventura e il suo Dustin HOFFNAM, Giorgia Surina versione giornalista de La Vita In Diretta, Valeria Marini soubrette oversize e le penose battute di Nino Frassica, non facciamo grossa fatica a essere presi per il culo) e c'è, per fortuna, il grande gusto della Coppola (o chi per lei, tipo Thomas Mars dei Phoenix) nella scelta delle musiche da abbinare alle immagini.
Sì, perchè, quando non se ne può più della routine di Johnny Marco, la figlia del buon Francis si ricorda di essere pure lei bravina e se ne esce con trovate che ti fanno pensare di aver fatto bene a scegliere questo film: una per tutte, il tenero tea party subacqueo con I'll Try Anything Once degli Strokes in sottofondo.
Perchè, magari 'autrice' è una parola grossa, ma è innegabile che la Coppolina abbia una buona dose di stile.
Ed in effetti, considerato come un elegante esercizio di stile, che, di contorno, riprende il tema della solitudine già visto in Lost In Translation, Somewhere è un film che può essere guardato senza tanti patemi.
Però, Sofia, la prossima volta pensa anche alla storia da raccontare, eh?
Voto 6+
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